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Mar 14, 2016 | Argomenti, LEAL informa, Storie

Siamo grati ad Annamaria Manzoni, psicologa e scrittrice fortemente impegnata nella questione animale, che si è resa disponibile a collaborare con LEAL firmando un nuovo articolo di una serie di contributi periodici.

Ancora pochi giorni e la mattanza comincerà per poi raggiungere il suo culmine in vista della Pasqua: l’Agnello di Dio sarà ancora una volta costretto suo malgrado a togliere i peccati dal mondo, e inutilmente alzerà i suoi lamenti che arriveranno al cielo senza incrociare la pietà che invocano. È lui, perché innocente, la vittima ideale per pagare le colpe dei colpevoli. “Felici le madri di questi agnelli sacrificali? – si chiede Josè Saramago nel suo Vangelo secondo Gesù Cristo – Quelle madri, se lo sapessero, ululerebbero come lupi”, perché loro mai avrebbero immaginato questa fine quando, neonati, li leccavano e li nutrivano e volevano solo, quelle madri, farli crescere i loro piccoli per poi lasciarli andare, a brucare l’erba o a correre nei prati. Non avevano capito cosa li attendeva; né c’è da stupirsene perché nessuna legge naturale potrebbe contemplare il teorema indimostrabile per cui il peccatore lava le sue colpe con un altro peccato, quello dell’uccisione di un innocente, di milioni di innocenti, che devono essere fragili, teneri, indifesi: un paradigma che trova nel diritto del più forte l’unica giustificazione. E così, secondo riti e tradizione, la Pasqua di sangue approntata in nome della pace inonderà la terra.
Per altro il significato di vittima sacrificale, che pure con tanta foga viene rispolverato e rinvigorito ad ogni Pasqua, per la gran parte della gente è ormai solo una pallida e scolorita giustificazione: la ricorrenza è piuttosto l’occasione per l’apoteosi di una mattanza che, come ci dicono i numeri, non ha tregue nel corso di tutto l’anno, al di fuori di qualsiasi riferimento religioso, per l’esclusivo e paganissimo piacere di un “piatto” evidentemente apprezzato.

Nais, 2014
“Lamb”
acrilico su tela, 40×40 cm

 
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Le parole che stigmatizzano come inaccettabile per la sua crudeltà l’uccisione degli agnelli, oscenità tra le altre oscenità dell’uccisione di ogni animale, sono evanescenti, a volte esercizio letterario che tocca qualche corda e si scioglie in turbamento passeggero: le immagini no, le immagini colpiscono con la forza dell’evidenza: non mentono e non tacciono. E allora i video, inguardabili per la violenza che mostrano ma da guardare per il dovere etico di sapere, sono quelli che sbattono in faccia la realtà, ciò che avviene nei luoghi della mattanza, che è la quintessenza del male: esseri totalmente indifesi, miti per antonomasia, innocenti per definizione, sono strappati alle madri, sottoposti a viaggi terrorizzanti, pesati, appesi per le zampe, uccisi con un coltello che recide la gola e che a questo punto si vorrebbe affilato, ma non sempre lo è e l’agonia si prolunga: belati terrorizzati, sangue ovunque, gemiti e strida. E poi le urla degli addetti ai lavori, uomini resi brutali dal loro stesso “lavoro”.
Le indagini, normalmente clandestine, delle varie associazioni sono sconvolgenti quanto necessarie, perché la cultura occidentale in cui viviamo immersi ha posto in essere nei confronti della sofferenza animale e di tutte le sue forme più estreme un meccanismo di nascondimento e occultamento, al servizio di quel connubio tra sensibilità ed egoismo che ci contraddistingue: non vogliamo vedere perché, anime belle e amanti degli animali quali ci piace considerarci, siamo refrattari a tanto orrore; ma non vogliamo rinunciare a qualsivoglia piacere seppure sbrigativo e perso tra gli innumerevoli altri che ci concediamo, quale che sia il prezzo che altri, altri animali, pagano.
Il nostro processo di civilizzazione, mentre condanna la violenza in tutte le sue forme, in realtà la subordina ad un grandioso processo di rimozione e negazione, che vorrebbe, questa violenza, annullarla o almeno mistificarne il senso e la portata. Le immagini, frutto di investigazioni rigidamente clandestine, ci colpiscono con tutta la violenza che portano con sé e ci costringono a prendere atto di ciò che supportiamo con i nostri stili di vita e le nostre abitudini alimentari e di cui rifiutiamo di sentirci responsabili. Come spesso succede in questi casi, ad essere messi sul banco degli imputati sono coloro che pongono in essere indagini scomode e magari pericolose, infrangendo una legge che, al servizio dell’opera di nascondimento in atto, proibisce che venga mostrato ciò che è politicamente, umanamente, eticamente vergognoso che abbia luogo.
In atto, lo vediamo, è una realtà di violenza inaudita, che suscita estrema pietà per gli agnelli e orrore per quanto subiscono, ma deve anche indurci ad interrogarci sulla cultura in cui siamo immersi: davvero vogliamo continuare a convivere con la mattanza di questi cuccioli di animali, gli stessi che, in una sorta di totale schizofrenia, in altri momenti offriamo all’interessamento intenerito dei nostri bambini, nelle favole, nei peluches, nei cartoni animati, come loro piccoli e stupiti davanti al mondo, che guardano con curiosità e attesa, da una vicinanza di sicurezza con la propria mamma, da cui si aspettano protezione?
Altre considerazioni incalzano ed esigono riflessioni: esiste un mondo di uomini a cui viene delegato di svolgere in prima persona il lavoro sporco: bistrattare e poi sgozzare esseri indifesi, farlo ogni giorno, a catena di montaggio, opponendo la tenace determinazione a portare a termine il compito ai gemiti e ai belati, alle invocazioni di aiuto e alle grida di dolore, non resta senza conseguenze. Molti di loro non hanno scelto di fare quello che fanno, ma di certo fare quello che fanno, qualunque fosse la loro realtà di uomini prima che tutto cominciasse, non può che trasformarli in persone brutali, insensibili, sorde al dolore altrui quando non addirittura capaci di infierire con ancora maggiore violenza sulle vittime. Della trasformazioni di tutti costoro, che sono la mano sporca della mattanza, dobbiamo prendere atto.
E non illudiamoci: una società che in parte non si vergogna di esporre cadaveri di agnelli, appesi a testa in giù ai ganci delle macellerie, in parte invece preferisce che il “prodotto” che arriva sulla tavola sia irriconoscibile e non rechi tracce dell’animale da cui proviene, è comunque una società che convive, ammette, incentiva una forma di violenza, legalizzata finché si vuole, ma sempre e comunque violenza orribile. I suoi miasmi non possono che intaccare le nostre vite e le nostre coscienze esattamente come succede nelle società che ammettano la pena di morte: la mitezza è al bando e in modi indiretti e diversificati ognuno ne sarà contaminato. Nessuna società può essere considerata giusta e pacifica se al proprio interno la pratica della violenza è abitudine quotidiana, chiunque ne sia la vittima, senza distinzione tra quelle umane e quelle animali: solo forme diverse di una stessa oscenità.
Ad opporsi a tutto questo indicibile può essere solo una diversa alleanza tra tutti i viventi, solidale, rispettosa, amichevole verso ogni vita, nessuna esclusa, che possa aprire una strada, in direzione ostinata e contraria, verso i luoghi di garbo e di gentilezza che ognuno dovrebbe poter abitare, non solo nei propri sogni.
“Dì una sola parola” ed eserciti di vittime innocenti saranno salvati: in assenza del verbo che arrivi dall’alto, ad ognuno la responsabilità di opporre il proprio personale no al male che c’è nel mondo.

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