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LEAL sostiene e condivide la petizione "Via i pesci dall'acquario di Fazio" e consiglia la lettura di "Pesci liberi acquari vuoti" di Annamaria Manzoni

Dic 9, 2017 | LEAL informa, Proteste e Incontri | 1 commento

La petizione aperta sulla piattaforma Change.org “Via i pesci dall’acquario di Fazio” (→ a questo link) ha raggiunto subito quasi duemila firme.
acquario che tempo che faL’acquario, con tanto di pesci prigionieri infatti è ancora in trasmissione dopo le polemiche scatenate dalla lettera aperta inviata al conduttore da Renata Balducci, Presidente di AssoVegan, e dai tanti dissensi espressi dal web. La TV di Stato di fatto dimostra zero attenzione a messaggi di rispetto verso ogni forma di vita anzi con questo acquario/prigione equipara degli animali senzienti ad oggetti di arredo.
Un articolo della psicologa Annamaria Manzoni “Pesci liberi acquari vuoti” (leggi sotto) è il perfetto compendio a questo argomento e sottolinea e spiega l’indifferenza umana nei confronti della fauna ittica. Lo scritto è di fatto un sentito manifesto a difesa degli abitanti del mare costretti in acquari, delfinari, circhi acquatici. Una lettura consigliata e soprattutto da diffondere ai troppi genitori e insegnanti che sono ancora convinti di contribuire alla conoscenza e formazione dei bambini accompagnandoli ad osservare creature confinate in tinozze di vetro, che se libere come giustizia vorrebbe godrebbero di ampi spazi e di ore di movimento, esplorazione e gioco.
 Pesci liberi acquari vuoti 
I ricorrenti dibattiti sull’opportunità di aprire nuovi acquari e gli ampliamenti di quelli già esistenti (Cagliari, Roma…) sono l’occasione per alcune riflessioni su queste strutture e soprattutto sui loro inquilini, strutture presenti in gran numero sul territorio nazionale: dal più antico, che è quello di Napoli, al più celebrato, quello di Genova, inaugurato nel 1992 con la benedizione architettonica di Renzo Piano, e divenuto indiscusso polo d’attrazione della città, meta turistica, occasione di gite, soprattutto scolastiche, ma non solo.
Gli animali, ospitati secondo la terminologia in uso, imprigionati secondo un approccio più rispettoso della realtà che passa anche da un uso più corretto del linguaggio, possono essere i più disparati: pesci marini, pesci d’acqua dolce, animali provenienti da foreste pluviali, squali, delfini, tartarughe, foche, pinguini, anfibi, rettili.
Andando diritti al cuore del problema, non si può che affermare che gli acquari sono il corrispettivo acquatico degli zoo: luoghi dove animali provenienti da luoghi diversi, in genere abituati a grandi spazi e a una vita di relazione articolatissima, vengono costretti in ambienti minuscoli, a rapporti intraspecifici del tutto falsati, a ritmi quotidiani estranei alle loro esigenze di specie. Il motivo della loro cattura e della loro riduzione in cattività è uno e uno soltanto: un business che può assumere dimensioni stratosferiche, dal momento che gli animali sono lì per fare arricchire qualcuno e lo scopo è in genere raggiunto.
Ammetterlo però non sta bene e quindi la realtà viene nobilitata con motivazioni riferite per esempio all’educazione dei bambini, che ne sono i fruitori principali, i quali, a dire degli organizzatori, possono fare percorsi interessanti tra divertimento, conoscenza e cultura del mare.
Varie sono le considerazioni: una attiene a ciò che i bambini, spesso in gita scolastica, (non)imparano: è sufficiente osservarli, mentre passano davanti alle vasche, soffermandosi in genere non più di qualche secondo, e ignorando le informazioni fornite dai cartellini esplicativi. È un po’ come essere in un grande luna-park, sfavillante di colori, attrattive e sollecitazioni visive, oltre che, ahimè per gli animali, sonore.
L’attenzione, per quanto fuggevole, è attratta dall’aspetto degli animali, dai loro colori smaglianti, dalle forme inusuali, da grandezze fuori dal comune, da movenze curiose. L’unica vera domanda, quella che si faceva Bruce Chatwin quando soffriva l’intollerabilità del suo essere lontano da dove desiderava, sarebbe “Che ci fa lui qui?”, ma non è contemplata tra quelle potenziali da proporre ad insegnanti e genitori: i bambini in grado di formularla sono davvero pochi, solo quelli dotati della capacità di posizionarsi fuori dal coro, in grado di non farsi inserire come tesserine nel mosaico preparato dai grandi, e di guardare invece la situazione dal di fuori, da una postazione critica che consente di vedere che il re è nudo: lì quegli animali non dovrebbero proprio starci, perché nessuno di loro è fatto per vivere in cattività, negli spazi ristretti a disposizione.
Gli adulti, se fossero in grado di accoglierla quella domanda, i bambini all’acquario non ce li avrebbero nemmeno portati, quegli adulti la cui autorità non è certo facile contrastare, perché sono loro che decidono cosa è bene e cosa no, cosa va fatto e cosa no, sulla scorta di una facoltà discriminatoria tra bene e male autoattribuita, tanto difficile da mettere in discussione soprattutto da chi, in virtù dell’età, possiede se mai solo la capacità di esternare con semplicità un vissuto interiore, che si nutre non di argomentazioni complesse, ma di identificazione empatica con quell’altro lì di fronte, chiuso nella vasca, capacità spesso incapace di tradursi in parole.
Per rendersi conto di cosa sono veramente gli acquari, risulta esemplificativa la situazione di uno degli animali più amati, il delfino: gli studiosi ci dicono che questi mammiferi, quando sono in libertà, passano l’80% del loro tempo sotto la superficie delle acque, giocando, esplorando, cacciando: sono animali liberi, che amano le profondità dell’oceano che scandagliano anche a 200 metri di profondità; negli spazi dei delfinari l’80% del loro tempo lo devono invece passare in superficie, costretti a giocare a palla o a girare in tondo magari in mezzo al ritmo di una musica assordante; la discesa nell’acqua non supera i 2 metri di profondità: sarebbe come per un uomo restare in ascensore spiega in modo efficacissimo Mark Hawthorne [Bleating hearts, Changemakers books 2013], sconvolgente esperienza claustrofobica per chiunque di noi. Ma preferiamo vivere di rappresentazioni anziché di verità: e allora nel nostro immaginario il delfino continua ad essere quell’animale gentile sdoganato da tanta filmografia di cui il film Flipper [regia di Alan Shapiro 1996; remake de Il mio amico delfino, regia di James B. Clark 1963] è solo l’esempio più eclatante, che consideriamo felice mentre compie irragionevoli acrobazie perché sorride con un sorriso che è in realtà il più grande inganno della natura [la definizione è di Richard O’ Berry]: frutto della sua conformazione mascellare che dà forma ad una sorta di smorfia, ci ostiniamo a interpretarlo come reazione di serena contentezza alle nostre assurde richieste. Ma sereni i delfini in cattività non possono proprio esserlo: animali molto intelligenti, veloci, dotati di autocoscienza, sono consapevoli delle circostanze in cui si trovano, e della propria condizione di prigionia; la ripetitività degli elementi stressanti li rende più vulnerabili alle malattie e li induce a volte a comportamenti aggressivi auto o etero diretti.
Non è un animalista visionario, ma il famoso oceanografo Jacques Cousteau a etichettare come suicidario il comportamento di uno di loro che costringeva in un acquario e che morì picchiando il cranio contro i bordi della struttura: fu suo figlio Jean-Michel a parlare di suicidio puro e semplice e ad affermare “Abbiamo ucciso un delfino disperato con i nostri maltrattamenti e la nostra indifferenza”. In modo non diverso si esprime Ric O’Barry, colui che catturò e istruì i cinque delfini della serie Tv Flipper, trasmessi con grande successo tra il 1964 e il 1967: racconta di come una di loro, Kathy, decise deliberatamente di non respirare più e di morire “Uso la parola suicidio con trepidazione, ma non conosco altra parola per definire quello che ho visto” [Richard O’ Berry, Dietro il sorriso dei delfini, Edizioni Sonda 2014]. Ric trasformò il senso di colpa conseguente alla consapevolezza di tanto male fatto a questi animali fondando il Dolphin Project, in loro aiuto e difesa. Se il suicidio è un’evenienza assolutamente drammatica quando coinvolge un umano, perché testimonia di una vita talmente insopportabile da rinnegare se stessa, quando messo in atto da un animale annichilisce: perché loro, anche più di noi, appaiono immersi nella propria natura corporea, indifesi come bambini, laddove noi adulti possiamo avere a disposizione meccanismi complessi di difesa e sublimazione del dolore.
A tutto ciò si aggiunga che sulla cattura dei delfini degli zoo acquatici arrivano informazioni che la connettono a quelle forme di caccia immortalate nel documentario The Cove, conosciute in tutto il mondo grazie alla diffusione delle immagini di un mare insanguinato e di un orrore senza fine, per il quale il linguaggio a volte non possiede parole esplicative: in quelle immagini si trova la misura definitiva di ciò di cui stiamo parlando, in quel sinistro fascio di luce gettato sulla realtà degli acquari. Come sempre, un provvidenziale meccanismo di negazione ci protegge dall’ammettere ciò che sarebbe fonte di angoscia inesauribile: quindi: non è vero niente. Tutto grazie ad un sano negazionismo in grado di farci ignorare i peggiori crimini quando non abbiamo i mezzi per giustificarli.
Ancora a lungo si potrebbe parlare degli zoo acquatici, con descrizioni di altri grandi cetacei quali le orche: è comunque sufficiente raccontare che la cattura avviene dopo che gli animali, una volta individuati in gruppo dagli aerei, vengono spinti dalle barche in luoghi chiusi mentre pescatori subacquei usano esplosivi per spaventarli; vengono poi bloccati in grandi reti, legati alle barche, trascinati a riva, messi nei container e trasportati fino ai luoghi della loro cattività, dove il viaggio termina per sempre: ciò al netto di quelli che succede rimangano impigliati nelle reti come fu per un cucciolo durante la cattura di ben 80 orche nel 1970 a Penn Cove, che morì insieme alla madre la quale tentava di soccorrere il suo piccolo in agonia. Anche delle orche non si può che ricordare che soffrono depressione, noia, decadimento fisico, stress: come potrebbero non farlo se, fatte per coprire giornalmente distanze di 160 km, una volta inserite negli acquari sono costrette in spazi che definire tinozze è tutto ciò che si può fare? Bisognerebbe forse anche cominciare a chiedersi il motivo per cui in cattività vivono, o meglio sopravvivono, una media di 13 anni a fronte dei 60 per i maschi e 90 per le femmine quando sono in libertà. Per altro è estremo insulto alla loro natura l’essere chiamate balene-killer, in quanto in natura non hanno mai ucciso nessun uomo e solo in cattività lo fanno: si tratta delle conseguenze omicide stimolate dalla prigionia, che induce iperaggressività e persino automutilazione: come è possibile non fare il collegamento?
Ma se sono i grandi cetacei le maggiori attrazioni degli acquari, non è meno infelice la sorte di tutti gli altri esseri acquatici lì imprigionati: purtroppo la sorte dei pesci in generale sta molto poco a cuore anche a chi è solito preoccuparsi di non umani: li sentiamo in qualche modo ancora più diversi perché vivono in acqua e questo segna un’ulteriore lontananza da noi, che siamo terrestri per definizione, e che pure tanto li invidiamo da sforzarci di imitare la loro capacità di muoversi immergendosi e solcando le acque, senza riuscire ad eguagliare neppure il più sparuto di loro. E poi, ahimè, sono muti, muti come pesci per l’appunto: e questo sembra favorire ai nostri occhi un’ulteriore svalutazione: oltre al fatto che “È perché sono muti che gli animali non ci dicono male parole”, come dice uno di quegli enormi conoscitori dell’animo umano che sono i bambini di Napoli intervistati da Marcello D’Orta [Marcello D’Orta, Nessun porco è signorina, Mondadori 2008], molto più capace degli adulti di cogliere la portata del male che anche ai pesci siamo tanto bravi a fare, impassibili davanti al loro dolore che è muto.
Insomma se c’è una cosa di cui non sentiamo il bisogno è un altro acquario; se da un lato non si può che inorridire al milione di visitatori annuali attesi all’Eur, che avrà così un rinnovato fascino e si trasformerà in area ad alta vocazione turistica, c’è da essere grati a nome di tutti gli animali acquatici per la presa di posizione di chi vi si oppone: ma bello sarebbe che le motivazioni non fossero solo quelle della sostenibilità ambientale ed economica, ma prima di ogni altra quella dell’insopportabilità dell’ingiustizia inferta ancora una volta ad esseri che abitano i mari e le altre acque, che quelle acque amano e frequentano a giusta distanza da noi, una distanza in genere abissale, che qualche volta giocosamente accorciano incapaci di immaginare quanta volontà di sterminio riesca ad animarci.

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